L'effetto “No more Vincent”?

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  1. _Nicoletta
     
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    Steve Jobs, Tra mito e realtà
    Marco Senaldi

    Da qualche anno si registra un accrescimento dell’effetto “No more Vincent”. :paper:

    Ovvero: solitamente la dipartita di uomini importanti era salutata con un “coccodrillo” e poco più, e a volte nemmeno quello (come nel caso di Van Gogh), così che il lavoro di riabilitazione era affare delle generazioni seguenti. Ma, siccome beccarsi rimproveri postumi (del tipo “Come è stato possibile che voi, suoi contemporanei, non vi siate accorti che era un genio?”) non piace a nessuno, oggi si assiste al fenomeno opposto: appena scompare un famoso si provvede a una deificazione istantanea.

    La celebrazione “del giorno dopo” però, serve più che altro quale garanzia preventiva dagli sbagli e dalle sottovalutazioni — e così finisce spesso per diventare una ipervalutazione altrettanto squilibrata. Quando quarant’anni fa scomparve Pasolini l’attenzione dei media sfiorò appena l’immensa portata del suo lascito intellettuale, concentrandosi sulle vicende pruriginose della sua omosessualità; oggi muore Mike Bongiorno e come minimo lo si paragona a McLuhan, se non proprio a Dante.

    Quello che lascia piuttosto perplessi è la corsa al rincaro di queste celebrazioni postume, che è divenuta particolarmente visibile nel caso di Steve Jobs. L’uso giornalistico di chiedere un parere a una serie di grandi intellettuali, dal giovane scrittore, all’artista del momento, allo scienziato (ma che lavori all’estero) ecc., conduce, invece che a un’ interpretazione più equilibrata dei meriti (ed eventuali demeriti) del defunto, a un rialzo dissennato della posta commemorativa.
    Così, se uno scioglie un peana all’IPad, definendolo la nuova tavoletta mediale del terzo millennio, quell’altro deve aumentare la dose e dire che Jobs è stato un “rivoluzionario”, per concludere col “più oltre” di tutti, che non ce la fa più, non si tiene, e cala l’asso di Leonardo da Vinci. Partita vinta. Verrebbe da dire: meno male che la cosa dura giusto il giorno del funerale: poi, visto che si pensa di averlo sepolto ben bene, ci si può allegramente scordare del morto.

    Eppure il caso di Jobs avrebbe dovuto indurre a una riflessione decisamente più sobria, anche in ragione della complessità della sua vicenda creativa.

    Per un altro effetto, chiamato “coda al casello” si è soliti sopravvalutare i fenomeni accaduti nell’ultimissimo lasso di tempo, anche se poco importanti, rispetto a un bilancio complessivo che tenga conto di quelli più remoti, anche se più rilevanti (proprio come la coda al casello dell’autostrada, che ci sembra più lunga se l’unica auto davanti a noi si ferma trenta secondi in più, mente ci dimentichiamo facilmente di una coda scorrevole, anche se magari ci fa perdere molto più tempo).

    Così, nel caso di Jobs, il recente duello Macintosh-Microsoft ha relegato in secondo piano il primo grande scontro sostenuto da Jobs (& Wozniak) fin dall’origine di Apple, cioè quello contro i grandi colossi industriali dell’elettronica, e prima di tutti IBM. È stato persino girato un film (firmato da quel genio sfortunato che è Jefery Levy), Drive, 1991, su due impiegati che per loro disgrazia si trovano a dover condividere il tragitto in auto — solo che uno lavora per la Apple e l’altro per la IBM, ed è tutto uno scontro titanico di filosofie di vita. Eh sì, perché IBM rappresentava l’imperialismo, il grande capitale, la tipica multinazionale impersonale, dominata da una visione deterministica del mercato — mentre la “piccola” e indipendente Apple era la risposta creativa, ma funzionale, al gigante in odore di monopolio. Il fatto che questa sfida avesse luogo proprio nel fatidico 1984, permise a Jobs di accentuarne l’atmosfera epocale, facendo anche ricorso al genio di Ridley Scott per firmare un indimenticabile spot.

    Ma la rivoluzione vera di quell’epoca non consisteva solo in una riedizione in versione economica del duello tra il Golia dei “cervelli elettronici” e il David della creatività californiana: fu soprattutto un dibattito decisivo sul fatto se l’era dell’informazione dovesse essere appannaggio di grandi trust dominati da una concezione “ingegneristica” della comunicazione, accentrata e governata dall’alto o invece ci fosse spazio per una visione “dal basso”, centrata sull’utente, reticolare e policentrica. L’idea della scrivania virtuale, delle icone grafiche al posto delle stringhe di comando, lo sforzo di ridurre il “cervello elettronico” a un oggetto davvero “personale” per dimensioni contenute e facilità d’uso, sono tra i meriti specifici di Jobs. Meriti all’epoca riconosciuti da una esigua minoranza, sempre in contrasto con la becera maggioranza dei trogloditi dell’informatica “come scienza” (che adesso naturalmente hanno fatto un falò dei loro manuali di “linguaggio macchina” e si sono comprati un bell’IPad).

    La seconda fase della parabola di Jobs appare, per contrasto, assai diversa dalla prima: ritornato in azienda sul finire degli anni Novanta, Jobs in realtà, pur continuando a puntare su valori simili a quelli della Apple degli esordi, ha cercato piuttosto di occupare un mercato che nel frattempo le sue stesse innovazioni avevano sconvolto, capovolgendo il rapporto tra hardware e software. Certo, alcuni prodotti apparsi tra la fine degli anni Novanta e la prima decade del XXI secolo restano memorabili — ma la filosofia nel frattempo era cambiata: la “chiusura” dei prodotti Mac, la blindatura di store virtuali come ITunes, fanno ben intendere che lo stile manageriale del Jobs “seconda maniera” è assai più simile all’ideologia IBM anni Settanta che a quella del giovane hippy che egli stesso era stato — e ci dovrebbe far capire che la carrozzeria sofisticata dei prodotti degli anni 00 (IPod, IPhone, IPad) tende più che altro a occultare il fatto che le vere innovazioni si svolgevano intanto altrove, nei giganteschi progetti di Google books (40 milioni di libri online), o sulle piattaforme pirata dei siti di file sharing, queste sì realmente rivoluzionarie (pur se create da geni del tutto anonimi).

    Ma non è una parabola simile a quella di tanti artisti contemporanei, cresciuti a pane e rivoluzione e oggi osannati, glorificati (e mummificati) nei musei di mezzo mondo? È per questo che occorre prendere con estrema cautela le esequie trionfali di questi giorni: se è pur vero che Jobs ha contribuito a “cambiare la nostra vita”, lo ha fatto in un contesto di altrettanto grandi cambiamenti (come internet o la telefonia mobile) che non portano una firma così personale. D’altra parte, il ruolo di “rivoluzionario senza macchia” andrebbe ridimensionato da una seria riflessione sull’uso spregiudicato dell’outsourcing da parte di Apple (i cui computer sono assemblati in Cina), in un contesto di globalizzazione sfrenata. La figura di Jobs andrebbe piuttosto associata a quella di un inventore — molto più simile in questo a un Edison (anche lui più volte accusato di monopolizzazione) che a un Leonardo.

    Paragonare Jobs a un artista o a un filosofo sarebbe come mettere sullo stesso piano Gutenberg (che aveva reso possibile la stampa di libri in grande tiratura) con Lutero che se ne servì per cambiare la coscienza religiosa, o Làzslo Biro (che rese la scrittura manuale infinitamente più facile inventando la penna a sfera), con Thomas Mann che grazie alla sua stilografica ci ha regalato capolavori immortali.

    La vita non “cambia” quando, invece di pigiare dei tasti, si accarezza il vetro di una tavoletta: infatti, è su rivoluzioni del genere che si fonda da due secoli la nostra civiltà ininterrottamente rivoluzionaria, dall’invenzione del telegrafo a quella del rotocalco, dal cinema al telefono, dall’aeroplano all’autostrada, dal calcolatore elettronico alla televisione, dai motori di ricerca a wikipedia. La “vita” cambierà davvero quando, grazie a tutto questo, cambierà la coscienza che ne abbiamo.



    Marco Senaldi è critico e teorico d’arte contemporanea.

    Insegna Cinema e Arti Visive all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.



    Steve Jobs, San Francisco 1955 - Palo Alto 2011.


    25 Ottobre 2011
    da http://www.flashartonline.it/interno.php?p...o-e-realt%C3%A0
     
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