Paola Mastracola da Fazio.

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  1. Alessia Va
     
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    www.youtube.com/watch?v=QYzQ4pgTMxY

    :B):
     
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  2. Ginepro
     
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    Alessia, il cognome è Mastrocola, non Mastracola, magari potresti correggerlo?

    Ho letto il suo libro "La scuola raccontata al mio cane" che, nonostante il titolo scherzoso, è in realtà un libro molto serio sulla scuola italiana attuale. Vi riporto un capitolo in cui, secondo me, dice cose importanti. E' un libro che consiglio a tutti gli insegnanti e a coloro che lavorano con bambini e ragazzi in ambito parascolastico.
    Ciao,
    Giovanna

    C'ERA UNA VOLTA IL TEMA

    [Paola Mastrocola, "La scuola raccontata al mio cane", Guanda, 2004]


    Da qualche anno si sono intrufolati nella mia materia tre signori che dettano ormai le leggi dello scritto di italiano: l'Analisi del testo, l'Articolo e il Saggio breve.

    Una volta era il tema: veniva dato un titolo, che conteneva un argomento, il più ampio e generico possibile. Tema d'introspezione, tema d'attualità, tema autobiografico, tema letterario, storico: «Conosci te stesso», «Le tue vacanze al mare», «I giovani e lo sport»,«Il problema dell'inquinamento», «La narrativa neorealista»... Cose così. Ma il titolo non aveva granché importanza. Era un pretesto, una molla che serviva solo a far partire la scrittura, la voglia di scrivere, di dire, di scavare, di persuadere...

    Il tema era... scrivere.

    Quando era il giorno del tema nelle mie classi, io entravo felice per i miei allievi. Dicevo: è il vostro momento, dimenticate tutto, chi siete, dove siete, scrivete e basta, lasciate che la penna segua i vostri pensieri. Se mi chiedevano aiuti sul tema, dicevo: fate voi, siete voi i padroni del tema, tutto quel che farete e come lo farete andrà bene. Adesso no.

    È passato Berlinguer e ha stravolto l'esame di maturità, a cominciare dal nome: adesso si chiama «Esame di Stato». Ricorda un po' la Polizia di Stato e le vecchie Ferrovie dello Stato, ma non importa, non è questo il punto.

    Spazzato via il tema. Troppo antiquato. Mai capito cosa fosse. Indefinito. Impositivo. Campato per aria, non esiste nella vita nulla che assomigli a un tema. Non è oggettivamente valutabile, e quindi è imprendibile, evanescente, fumoso. E poi, quali abilità certifica? Hanno cominciato a dire: il tema non ha più senso, non ha mai avuto senso, mette inutilmente i ragazzi davanti alla tragedia del foglio bianco.

    Dunque, vediamola da vicino questa tragedia. Il vecchio tema sì, è vero, era un foglio bianco; solo il nome, la data, il titolo. Una o due righe al massimo di titolo, tutto il resto è bianco. Il tema era quel bianco accecante che all'inizio ci lasciava muti e che poi di colpo, quasi a nostra insaputa, scatenava la scrittura.

    Scrivere è esattamente quel bianco, averlo davanti come un tempo infinito, essere pervasi da una specie di vuoto assoluto: il non sapere cosa scrivere. È essere di colpo proiettati all'inizio del mondo. Certo che fa paura. Ma è una sfida, non una tragedia; e può portare addirittura alla felicità. Un'intelligenza che non riceve mai nessuna sfida, lentamente si consuma e muore. A noi adesso quella sfida fa paura. Abbiamo abolito il foglio bianco, il famoso trauma del vuoto, adesso diamo un «pieno» davanti: dieci pagine fotocopiate da leggere prima di scrivere anche solo un rigo. Ogni titolo è seguito da pagine di schemi, domande, tracce e documenti. E' come dire all'allievo: guarda che non sei solo, siamo qui noi con te, ti diciamo noi come scrivere e cosa dire, tu non devi far altro che seguire la traccia... Quasi un'istigazione al conformismo?

    Vediamo da vicino l'analisi del testo. Agli esami di quest'anno, 16 giugno 2004, è uscito un testo di Montale: Casa sul mare, una delle sue poesie più belle, e difficili. Un capolavoro. Sono molto felice che i ragazzi si siano trovati di fronte a questa poesia nel loro ultimo periodo di scuola, rni sembra quasi un viatico per la loro vita futura. Ci sono tre versi, in questa poesia, che personalmente mi ero ritagliati e mi portavo battuti a macchina nel portafoglio, quando facevo l'università. Pensavo allora che potessero persino portarmi fortuna:

    Penso che per i più non sia salvezza,

    ma taluno sovverta ogni disegno,

    passi il varco, qual volle si ritrovi.

    Ebbene la prova è cosi strutturata: appare la poesia, poi una decina di righe su chi è Montale, quando è nato e quando è morto, il Nobel, le opere, i temi principali, tutto. Così se per caso non sapevi chi fosse, adesso lo sai. Poi ti invitano alla seguente tripartizione, spiegandotela nei dettagli: 1) Comprensione del testo; 2) Analisi del testo; 3) Interpretazione complessiva e approfondimenti. Per il punto 2, siccome sarebbe un po' generico, viene snocciolata una sfilza di domandine puntuali sui temi della poesia, sul lessico, assonanze e consonanze, enjambement, rime.

    Non si chiede ai ragazzi di sapere nulla né di inventare più nulla; si chiede solo di seguire una «traccia», di rispondere a una batteria di domande preventivamente fornita. Vuol dire che gentilmente noi regaliamo il prefabbricato, la struttura già messa in piedi: loro non devono far altro che riempire i buchi. Non devono pensare né decidere come strutturare il pensiero, perché questo glielo abbiamo già pensato noi!

    Piccola riflessione numero 1 : li trattiamo da stupidi, possibile che non se ne accorgano? Possibile che non insorgano?

    Piccola riflessione numero 2: se noi non sollecitiamo le capacità logico-consequenziali del loro pensiero, come possiamo ritenere che poi siano in grado di usarle, quelle capacità? E come possiamo scagliarci contro di loro e lamentare l'attuale pochezza dell'attività pensante dei giovani? Da dove ci viene questa ipocrita cecità?

    Piccola riflessione numero 3: e se l'allievo (magari bravo e fors'anche geniale) volesse mai scrivere liberamente quel che pensa di questa poesia, magari concentrandosi solo su quei meravigliosi tre versi che piacciono alla sottoscritta? E se volesse condurre il tema, che so, sul raffronto con il nido pascoliano? Se avesse delle idee particolari e personalissime su questa poesia? Sarebbe a suo rischio e pericolo. Prenderebbe insufficiente, perché non avrebbe, come si dice, «rispettato le consegne».

    Perché abbiamo fatto questo, cari ministri dell'Istruzione? (Tutti colpevoli, chi ha fatto e... chi non ha disfatto!).

    Abbiamo fatto fuori la libertà di pensiero, l'originalità, la creatività individuale che prevede anche la digressione infinita, il collegamento imprevisto, persino l'andare da tutt'altra parte...

    Trac! Imbrigliati nella rete! Nessun varco, caro il mio Montale... Qui nessuno può più sovvertire alcun disegno, né ritrovarsi qual volle.

    Veniamo all'articolo e al saggio breve. Dunque, riflettiamo: è una scelta molto specifica e restrittiva, perché mai si sono privilegiate queste due forme di scrittura, così tecniche e circoscritte a mestieri precisi, quali il giornalismo e un generico «saggismo»?

    Non solo. Se sceglie queste due forme, l'allievo deve anche dare un titolo al proprio elaborato e una destinazione editoriale precisa: quale rivista, quale giornale, quale rubrica... Si vuole un vero e proprio allievo-giornalista.

    Capisco le ragioni. La forma di scrittura oggi più visibile è quella giornalistica. Ma perché, già nella scuola, agganciare la scrittura a un mestiere?

    Comunque la faccenda è ben più grave: noi adesso forniamo, dopo il titolo, pagine e pagine di cosiddetti «documenti», ovvero brani di autori noti (poeti, filosofi, cantautori, saggisti...) che si siano espressi a proposito di quel tema. Cosa deve fare l'allievo? Leggere i brani e, a partire da quelli, scrivere cosa ne pensa. Certo, abbiamo sconfitto il carattere astratto del vecchio tema, ora forniamo un materiale concreto su cui esprimersi. Forniamo cioè... i contenuti! Proprio quei contenuti che non abbiamo dato ai nostri studenti. Ma bravi! Ci siamo accorti che in effetti è piuttosto impossibile scrivere sul nulla, e quindi, molto gentilmente, forniamo quel qualcosa su cui scrivere.

    Mi spiego: è perfetto che io sul tema del «tempo» alleghi scritti di Thomas Mann, Tabucchi e Braudel. Ma, forse, una volta il tema presupponeva che ci fossero, nella testa dell'allievo, alcune conoscenze (queste o altre, non importa), e il tema consisteva appunto nel farle finalmente affiorare in un discorso originale e chiaro: l'allievo doveva dimostrare, scrivendo il suo tema, non solo che sapeva scrivere, ma anche che sapeva qualcosa. Il suo tema implicitamente diceva che cosa lui sapeva di suo, che cosa aveva letto, che cosa aveva studiato, che cosa aveva pensato e infine che cosa, di tutto ciò, gli era rimasto in memoria... Un tema, una volta, misurava anche la preparazione di un allievo e, soprattutto, la sua capacità di far emergere, dagli studi compiuti, quei passi, quegli autori, e quelle idee che ora egli riteneva utili allo svolgimento!

    Invece adesso glieli diamo noi in fotocopia, quei mirabili pezzi di letteratura che lui avrebbe dovuto incontrare nella sua vita di studente, e amare e immagazzinare, e ora scegliere. Così se li legge in tempo reale, in assoluta contemporaneità con la scrittura stessa del tema; e scopre, esattamente nel giorno dello scritto di italiano, quali grandiose idee abbiano avuto Cicerone, Saint-Exupéry e Cesare Pavese sul tema dell'amicizia (per carità, meglio tardi che mai). Se li trova già tutti lì, quei pezzi. Qualcuno, compassionevole, li ha scelti per lui, glieli ha confezionati e infine regalati.

    Ma io, insegnante che correggerò quei temi, che cosa posso più valutare? Solo la capacità di sintetizzare e amalgamare idee altrui, lette sul momento e impastrocchiate all'ultimo le une con le altre?

    Quale mirabile lezione di superficialità!

    Forse, se ci pensiamo bene, la nuova struttura dello scritto di italiano nasconde una clamorosa ammissione di colpa.

    È tutto un sottile e recondito atto di autoaccusa: è come se la scuola ammettesse le sue mancanze e corresse al riparo almeno l'ultimo giorno del liceo, in extremis, soccorrendo pietosamente le sue vittime, ovvero gli studenti. È come se dicesse loro: lo so che non vi ho insegnato niente, e che quindi voi non siete in grado né di condurre logicamente la costruzione di un discorso, né di metterci dentro dei contenuti; dunque, non vi preoccupate, ci penso io. Io scuola vi fornisco sia lo schema logico del tema (voi non dovete che rispondere alle domandine, in fila come vele pongo), sia i contenuti. Scusate il disagio, stiamo lavorando per voi...

    Siccome non vi abbiamo immesso i dati, ve li forniamo adesso in presa diretta, che problema c'è? Come fosse una bella schermata: voi li usate e poi li buttate. Non vi è entrato niente, non vi è uscito niente. Bilancio in pari. Scuola usa e getta.

    Non credo che la scuola ami molto la scrittura, questo è il punto. Dice di amarla, ma non è vero. Al massimo, oggi, prescrive qualche lezione di scrittura creativa, perché va di moda. E allora ci autoimbrigliamo in tecniche, regole, distinzione di generi.

    Soprattutto curiamo la scrittura dei testi utili. Ma non invitiamo mai a scrivere e basta, scrivere in quanto gesto libero e indefinibile. Ci spaventa molto l'indefinibilità, e la combattiamo dando precise «consegne».

    In genere, oggi definiamo tutto di un testo da scrivere: il destinatario, l'obiettivo, il tipo di narratore. Fissiamo persino il numero di righe o il numero di pagine da scrivere. E, in genere, richiediamo espressamente esigue quantità di testo: rispondi in tre righe, scrivi due pagine, non di più.

    Non di più... Ma perché mai? Chi l'ha detto che sia un valore essere sintetici? D'accordo la brevitas degli antichi, ma in qualemondo, in quale mestiere, se non ancora una volta nel mestiere del giornalismo, si contano le righe?

    E poi vogliamo che leggano! Sinceramente ci addoloriamo che i nostri giovani leggano così pochi libri. E dove mai dovrebbero andarla a prendere questa voglia di leggere libri, se noi persino a scuola proponiamo altri modelli, insegniamo giornalismo e opinionismo, cioè li indirizziamo a essere rapidi e brillanti, a cercare lo scoop e l'audience, e a dire quello che pensano anche senza averlo davvero pensato, ma seguendo semplicemente una «traccia»? Mi dite una sola ragione per cui i nostri giovani dovrebbero aprire anche solo una pagina di Madame Bovary, che è esattamente il contrario di tutto ciò? Noi l'abbiamo fatta fuori, Madame Bovary, ogni volta che ai giovani insegniamo tutt'altro. Almeno, per favore, smettiamo di chieder loro dil eggere, e di scagliarci contro di loro perché non lo fanno!

    La verità è che noi abbiamo eliminato la scrittura, e la sua connaturata libertà, dalla scuola. Nell'universo libero e infinito dello scrivere non c'è numero fisso di pagine, non c'è traccia, non c'è consegna...Lì semplicemente albergano i pensieri, si dipana un filo lunghissimo e si sta a guardare dove porta, e se porta lontano, noi siamo ben felici di seguire tutte le stradine laterali e di arrivare in luoghi remoti, mai pensati, mai visti. Questo sarebbe scrivere.

    Ma noi non li facciamo mai scrivere, i nostri allievi! Non diamo temi a casa, non chiediamo che ci portino i loro pensieri scritti su foglietti volanti o bloc-notes, le loro impressioni, ricordi, commenti a un film, a una canzone, alla visita di una zia... Non usiamo chiedere mai alcunché di scritto. Non è previsto, secondo noi, che i giovani nella loro vita quotidiana scrivano. Quindi siamo noi insegnanti di lettere i primi ad affondare la scrittura, che pure dovrebbe essere il banco di prova per eccellenza della nostra materia, la sfida, l'esercizio, il lavoro sostanziale. Chiediamo solo le prove scritte previste per legge: i classici tre compiti in classe a quadrimestre.

    E visto che vogliamo da loro la capacità di sintesi e ordiniamo che scrivano non più di due pagine, questo significa che noi chiediamo ai nostri allievi di scrivere mediamente dodici pagine protocollo all'anno.

    Dodici pagine all'anno! Non è un po' poco?

    Ma non basta. Di codesti elaborati sintetici, noi adesso non giudichiamo più la bellezza, l'originalità, la capacità di... scrivere. No. Cose troppo imperscrutabili e poco valutabili, anzi, «oggettivamente» invalutabili! Noi adesso andiamo a valutare... se l'allievo rispetta le consegne. Tutto qui. Se le rispetta, avrà un bel voto. Altrimenti, no.

    Il mito della valutazione oggettiva uccide la libertà espressiva, la personalità individuale, tutto ciò insomma che rende unico un individuo, grazie al proprio pensiero. Uccide anche noi insegnanti, sotterrati da obbrobriose «griglie valutative» con cui siamo invitati a dare i voti.

    Peccato. Una pagina scritta non è valutabile scientificamente se non nelle sue componenti più tecniche (ortografia, sintassi, coerenza logica...). Ma c'è sempre quel meraviglioso e imprendibile qualcosa che sfugge. Sfugge perché attiene ad altri campi, per fortuna non oggettivi: la bellezza, l'emozione, la forza del pensiero. Un tema può essere corretto e ben organizzato, e può non dirmi nulla. Un altro tema, ugualmente corretto e ben organizzato, può invece toccarmi il cuore. Io voglio dare 7 alprimo e 9 al secondo, e voglio poter non obbedire, in ciò, a nessuna griglia, e non «motivare» per niente il voto (o meglio, la differenza di voto), se non col fatto che, restituendo i temi, al primo studente dirò bravo, e al secondo bravissimo! E su quanta distanza ci sia tra un bravo e un bravissimo, silenzio, zitti! C'è un abisso, ma non si dice.

    Torniamo alla scrittura. Noi oggi non insegniamo a scrivere, ma a «scrivere testi». Testo è una parola che non vuol dire niente. Tutto è un testo: ogni cosa intessuta, intrecciata è un «testo»; e, soprattutto, testo non è letteratura. Per indicare letteratura, io devo dire «testo letterario». Ma il testo letterario non è che una delle tante forme di testo, e la più inutile, per giunta.

    Oggi insegniamo a scrivere testi utili. Dal Mondo del Lavoro arriva il grido: aiuto, ci siamo accorti che i giovani non sanno scrivere un curriculum, una lettera di presentazione, una lettera commerciale, nemmeno un cartello rivolto al pubblico in cui si prega di andare allo sportello tale per le pratiche tali. E la Scuola, colpita da tale grido e completamente prona, dice: non sia mai! Caro Mondo del Lavoro, scusami tanto, io stupidamente continuavo a insegnare letteratura... ma non ti preoccupare, corriamo subito ai ripari. E cosa fa quindi la Scuola? Contrita e obbediente, attiva corsi e progetti e si mette subito a insegnare come si scrive un curriculum, una lettera commerciale, un cartello di informazioni per il pubblico.

    Linguaggi utili. Testi.

    Poi, escono insieme la sera sottobraccio, la Scuola e il Mondo del Lavoro, felici e soddisfatti.

    Trovo molto giusto che un ragazzo sappia scrivere una lettera commerciale, un articolo di giornale e un micro-saggio sui danni ambientali. Credo che il Mondo del Lavoro abbia proprio ragione a pretendere queste «competenze». Viviamo in questo mondo, non in un mondo immaginario; ed è bene che i ragazzi abbiano in mano tutti gli strumenti per saperci vivere almeglio.

    Ma... è il modo che mi pare sbagliato. Il modo in cui la Scuola risponde alle giuste esigenze del Mondo del Lavoro. Non pensiamo che, insegnando ai ragazzi a scrivere un commento all'Eneide, otteniamo ancor meglio che un giorno sappiano anche scrivere un cartello pubblicitario o una lettera di lavoro? Gli ultimi ritocchi di quel tecnicismo settoriale potranno poi riceverli direttamente dai loro datori di lavoro. Ma solo noi a scuola, chiedendo un commento all'Eneide, possiamo dar loro qualcosa di più, visto che nessun datore di lavoro insegnerà mai l'Eneide. È la scuola la loro ultima occasione, l'ultimo luogo al mondo in cui trovare una cosa così bella come la storia di Enea.

    
     
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  3. Alessia Va
     
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    Ops, hai ragione! :timido: Ma onestamente non sono come correggerlo.

    Ho letto un sacco di libri, suoi, è intelligente, acuta, ironica, profonda, sensibile...
    Insomma: una gran donna!
    E in quest'intervista mi è piaciuta un sacco! :cuoricino:
     
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2 replies since 21/2/2011, 23:56   186 views
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