Racconti brevi Soli nelle nostre giubbe blu e altri

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  1. carlopiraneo
     
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    Questa volta forse ce l'ho fatta e dopo tre tentativi di proporvi questo mio breve racconto, finalmente sono riuscito ad "incollarlo" senza perderne pezzi per strada.

    E' dedicato a Sandro, a Gabriele, a Maurizio, ai colleghi che hanno fatto la loro stessa scelta, ai loro famigliari, a quanti hanno condiviso con loro giorni e notti di servizio, a tutto il "Team Pari" del Centro di Neurologia e Psicologia medica della PdS di cui ho la fortuna di far parte ed al Prof. Roger SOLOMON per il tempo che ci dedica nelle attività di formazione e per l'energia positiva che è in grado di trasmetterci.


    SOLI NELLE NOSTRE GIUBBE BLU


    “Ma quanto coraggio ci vuole?”…”Cos’è passato in mente a quell’uomo negli istanti che precedevano il suo gesto disperato?”…Com’è possibile che d’un tratto una persona decida di sbattere la porta in faccia alla vita?”… “Ma perché… perché non ne hai parlato dei tuoi dubbi, delle tue angosce?”…
    Queste domande risuonano nella mia testa e si rincorrono, mentre percepisco la sensazione di vuoto, quella specie di “morsa allo stomaco” che non mi consente di completare i respiri e li spezza a metà, lasciandomi una costante sensazione di apnea.

    Ho provato in mille modi a dare un senso ad un suicidio, a trovarne una giustificazione, ma non ci sono riuscito; è un qualcosa di molto più grande delle mie capacità di pensiero, che mi ha toccato da vicino, un fatto a cui so di non poter dare spiegazione ed anzi al quale, molto probabilmente, non è nemmeno giusto cercare di dare un senso, perché il vero senso forse si chiama “silenzio” o forse “rispetto”, o comunque sicuramente “riflessione”.

    Quando poi ad andarsene è uno di noi, uno con la “giubba blu” come la mia, uno che nell’immaginario comune è pensato come un essere invincibile, un forte, una persona capace di affrontare tutto e tutti, persino un criminale armato, il disappunto e lo smarrimento sono amplificati.

    Ho cercato in modo frenetico un perché oggettivo, quasi con ossessione da “sbirro”…
    Già, per uno sbirro se accade qualcosa di anomalo al normale fluire degli eventi, “un perché oggettivo DEVE esserci”. E poi quel perché mi serve, devo trovarlo, è un’ancora di salvezza a cui aggrappare i dubbi lancinanti che attanagliano il mio pensare convulso di queste ore.

    Ma per quanto io mi stia arrovellando, mi rendo conto che non riesco a trovare uno straccio di motivo concreto.
    E’ come se stessi camminando nel pantano di una laguna a Novembre;
    sento la fatica di ogni passo e sento che più mi muovo verso la nebbia della ricerca, più affondo nella morchia torbida.
    Già proprio così…torbido e pantano.. e tanta, tanta solitudine.
    Questa parola sta rimbombando nella mia anima come l’eco in una valle tortuosa.
    “Solitudine”…”solitudine”…”solitudine”…

    Sono sicuro che in quell’istante fuggevole che divide la vita dalla morte, l’esserci dal non esserci, il suono dal silenzio, in quel momento che funge da spartiacque tra una dimensione conosciuta e l’ignoto assoluto, Voi eravate profondamente, intimamente, desolatamente SOLI.

    Nemmeno la certezza della vostra “giubba blu”, neanche il bagliore di quelle luci lampeggianti che hanno accompagnato buona parte del vostro cammino, in quell’attimo hanno potuto esservi vicino e farvi compagnia.
    Solitudine”…”solitudine”…”solitudine”…la sensazione di silenzio ovattato in cui tutto è assorbito dal buio, m’impregna.

    La mia ricerca convulsa di una risposta in grado di giustificare la Vostra scelta d’un tratto svanisce e sono permeato da un senso di vergogna.
    Egoista!...certo, questa ricerca è il frutto del mio egoismo… è il bisogno di trovare una risposta in grado di assolvermi dai dubbi che sento dentro.
    “Solitudine”…”solitudine”…”solitudine”…

    Mi guardo allo specchio e vedo la mia immagine riflessa, fiera d’indossare questa giubba blu e mi soffermo a pensare. Penso a tutte quelle volte che avrei potuto dire qualcosa a qualcuno e non l’ho detto, a quando forse avrei potuto mordermi la lingua e star zitto, penso ai sorrisi celati, alle dicerie raccolte e alimentate, a tutte le volte che avrei voluto chiedere un sostegno e non l’ho fatto e penso al tempo in cui ho intuito che qualcuno tra noi domandava aiuto ed ho finto di non capire.

    Allora il vostro gesto, la vostra scelta senza ritorno forse hanno ancora un barlume di senso.
    Davanti alla morte, qualunque essa sia, l’unica cose che rimane è il rispetto e se rispetto qualcuno o qualcosa, faccio in modo che il messaggio che mi ha lasciato non vada disperso nel nulla.

    La mia voglia di un perché si sta piano piano spostando dall’oggettivo al soggettivo; mi sto lentamente rendendo conto che le risposte in grado di assolvermi e gratificarmi le potrò trovare solo in me stesso.

    Ho deciso di non voltarmi più quando vedrò che una “giubba blu” annaspa nel mare dell’indifferenza, nel vortice dell’ipocrisia. Perché noi sbirri forse sappiamo capire prima d’altri il malessere, la disperazione, la…“Solitudine”…”solitudine”…”solitudine”…

    Quante cose avrei potuto e voluto comunicarti; ho sempre rinviato, perché in fondo ad un uomo, ad uno sbirro, non c’è nulla che fa più paura della paura altrui e forse, davanti alle tue silenziose, velate richieste d’aiuto, sono scappato ed ho battuto in ritirata.

    Mentre l’aria vibra dei rintocchi delle campane, mentre ti avvii verso la tua ultima dimora portato a spalla dalle “giubbe blu”, ti saluto in silenzio e me ne sto ritto…fermo…immobile…sull’attenti…

    come un punto esclamativo dopo la parola “VIGLIACCO!”.


    P.S.: ogni anno il numero dei poliziotti che si suicidano è uguale o superiore a quelli caduti in servizio, ma tutto non si "deve" sapere.
    Sto compbattendo una battagllia affinchè ci si renda conto che la pressione di certe professioni necessita di uuna struttura idonea a prendersi cura degli operatori, specialemente quando gli stessi vivono 24 ore al giorno con uno strumento a portata di mano che non consente di "ripensarci".

    Edited by carlopiraneo - 13/1/2011, 17:28
     
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  2. stroppolo
     
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    Grande persona il Prof. Roger Solomon, ho avuto la fortuna di conoscerlo e lavorarci assieme in un paio di corsi da lui tenuti sul PTSD.. :onore:
    Ps: è un piacerle leggerti, Carlo
     
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  3. _Nicoletta
     
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    Lo sforzo merita un post a sè
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    :rolleyes:
    Ma che bravo Carlo!
     
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  4. Patrizia974
     
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    Grazie per aver scritto,arrivi al cuore.
    é leggendo cose come queste che si riaccende la voglia di trovare un modo per essere "utile",di poter un giorno avere un lavoro che abbia un "senso", con tutto il rispetto dovuto ai classici lavori tradizionali.
     
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  5. carlopiraneo
     
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    Dato che sto preparando "Emozione e motivazione" e dato che se mi emoziono scrivo, vi propongo un altro mio breve racconto, scritto qualche anno fa, con la speranza di non annoiarvi. Buono studio e buona lettura a tutti.
    P.S.: spero di non essere finito OT altrimenti poi mi toccherà sentirle dall'ADMIN.

    IL FAGGIO CADUTO


    Quel vecchio albero proprio non ne voleva sapere di lasciarsi cadere e ormai da anni se ne stava abbarbicato al pendio, con quel dedalo di radici che trattenevano un tronco ferito dalle traversie di una lunga esistenza esposta alle intemperie.
    Il grosso faggio se ne stava lì, appena sopra ad uno sperone di calcare, al limite superiore del bosco, proprio dove il pendio s’interrompe per lasciar spazio alla verticalità della parete bianca.
    Le sue fronde accarezzavano i primi cinque, dieci metri di quella parete, insinuandosi a sfiorare le “rigole” scavate nella roccia dal lento lavorio dell’acqua.
    Quella parete esposta a sud, soleggiata e brillante, è per me una specie di santuario, un luogo che amo, una palestra per le mie arrampicate ardite, uno spazio dell’anima prima ancora che del corpo, una dimensione surreale in cui riesco a liberarmi dei fardelli quotidiani e ad innalzarmi leggero verso il cielo azzurro.
    Ogni volta che son venuto qui ad arrampicare, dopo quell’ora e mezza di salita nel bosco, sono giunto ai piedi del costone calcareo dove, un breve sentierino in terra battuta, riporta in quel mondo inclinato o verticale, un po’ d’orizzontalità.
    Il vecchio e possente faggio, seppure contorto e lacero in più punti, ha formato sotto di sé un piccolo spiazzo ricoperto del suo stesso fogliame ed ombreggiato dalla sua prorompente chioma.
    Lì, in quel punto, noi giocolieri del verticale siamo soliti adagiare i gli zaini carichi di ferraglie alpinistiche, agghindarci per la salita o fermarci a riposare una volta discesi.
    Inerpicandosi per una delle più belle vie di quella fantastica facciata di roccia si deve, nei primi metri di salita, farsi largo tra le fronde del faggio, che proprio in quel punto sono particolarmente fitte.
    Una volta superato il verde confine si giunge, con non poche difficoltà, al primo aereo terrazzino di sosta da cui, dopo le manovre di auto assicurazione, si provvede alla sicurezza del secondo di cordata che affronterà il nostro stesso tragitto.
    Visto da sopra il grande albero appare in tutta la sua maestosa imponenza, tant’è che il suo cappello di foglie verde sgargiante, forma un grande cerchio semiregolare e fitto.
    Quante volte mi son perso in pensieri più grandi di me, mentre accucciato su quella breve sporgenza di roccia facevo le manovre di corda necessarie alla salita sicura del mio compagno di turno.
    Mi piaceva guardare l’elegante movimento di tutte quel fogliame smosso dal vento, e quel danzare lento e sinuoso della massa verde mi donava un senso di profonda serenità.
    Un giorno, scendendo in corda doppia proprio da quella via, una di quelle volte in cui l’imminente temporale fa sì che ogni gesto sia fatto con matematica precisione e veloce sincronismo, lanciai nel vuoto le due estremità della corda, pronte ad accogliere l’ultima atletica “discesa in doppia” della giornata.
    Gli anelli colorati si svilupparono nell’aria in un sibilo a noi noto ma, dopo un brevissimo intervallo, finirono in mezzo alla chioma del grande albero e ne vennero come ingoiati.
    Le imprecazioni si sprecarono, mentre le prime copiose gocce di pioggia già stavano tamburellando sui nostri caschi di sicurezza.
    Discesi per primo quell’ultima calata ma giunto alle prime fronde, le due estremità della nostra bella corda rossa non ne vollero sapere di districarsi da quei rami.
    Trovarsi appeso alla croda, a circa quindici metri da terra, con l’acquazzone in arrivo e la possibilità che qualche fulmine scelga proprio quel punto per scaricare tutta la sua rabbia, non è certo una bella esperienza.
    “Accidenti”, dissi a me stesso, “sto dannato albero ci sta giocando proprio un brutto scherzo”, e mentre tiravo con quanta forza potessi esprimere da quella precaria posizione, insultavo quel faggio secolare che stava trattenendo ingiustamente la mia corda.
    Iniziò il diluvio universale e in poco meno di cinque minuti lungo la parete stava scendendo tutta l’acqua del mondo.
    Il mio compagno però si trovava in una posizione molto più pericolosa della mia.
    Egli infatti, fermo sotto al temporale sull’ultimo terrazzino della discesa, era esposto al rischio di fulmini molto più di me.
    La sosta infatti era costituita da tre chiodi a pressione collegati da una catena metallica e si sa, i fulmini amano l’acciaio perlomeno quanto io ami la vita.
    Detto fatto, presi una decisione per fare uscire, almeno lui, da quella situazione di pericolo incombente.
    “Andreaaaaa” urlai verso l’alto mentre gli scrosci d’acqua rumoreggiavano quanto i tuoni nella valle, “metti ancora un cordino alla sosta e scendi anche tu”.
    In due appesi alla stessa corda doppia, nello stesso momento, non costituisce certamente ciò che i manuali alpinistici indicano come “discesa sicura”, ma la paura che il mio compagno venisse colpito da una folgore mi fece decidere così.
    In breve ci trovammo entrambi appesi a poca distanza l’uno dall’altro, sotto al diluvio, tremanti per il freddo e per l’ormai inevitabile paura.
    Andrea, che si era fermato poco più su di dove ero bloccato io, iniziò a tirare i due spezzoni di corda e, tira tira e tira ancora, riuscì finalmente a liberarli dalla presa di quei rami nerboruti.
    Potemmo finalmente scendere e, una volta giù, ci accorgemmo che eravamo rimasti in quella posizione per più di un’ora.
    Ero furibondo, ed anche quando il cielo terminò di scaricarci addosso la sua furia, mentre stavo sistemando tutto il materiale, non finii d’imprecare all’indirizzo del vecchio albero e mi promisi di tornare in quel posto, attrezzato di segaccio e cesoie.
    Così in un giorno di mezza estate feci ritorno in quel punto, tutto solo, ma armato come un esperto boscaiolo e con uno spezzone di corda per auto assicurarmi.
    Cominciai quindi un pomeriggio di duro lavoro che mi permise di creare una “fascia di rispetto” tra la parete rocciosa e l’albero tant’è che ora, dalla base della salita, se ne poteva vedere quasi la fine, non fosse stato per quella “schiena d’asino” che caratterizzava la via verso la sua parte sommitale.
    Alla fine di quella stagione, in un periodo in cui mi sembrava che la mia vita stesse imboccando un viottolo buio, me ne andai, come son solito fare in quei momenti, a camminare in montagna.
    Decisi così di recarmi là, proprio sotto a quella parete, con l’intento di rilassarmi un po’, appoggiato con la schiena al tronco possente del grande albero, seduto comodamente tra le sue foglie secche.
    Quel giorno, senza zaino ed anche un po’ contrariato per i miei guai, camminai di buon passo e coprii velocemente il pendio che separa la strada dalla parete.
    Quanto stavo per arrivare alzai lo sguardo ed uno spettacolo disarmante mi accolse.
    Il vecchio faggio si era schiantato al suolo in un groviglio di rami, radici, terra e sassi.
    Il suo antico tronco aveva trascinato per diversi metri tutta la terra del terrazzino che in origine formava, ed anche parte del sentierino che correva sotto alla parete era venuto giù con l’albero.
    Ora, al posto della grande chioma c’erano una luce surreale ed un vuoto nel cielo.
    Che desolazione, che senso di profondo sconforto provai;
    quel paesaggio idilliaco che conoscevo molto bene era stato sconvolto e quell’antico albero, alla cui base dovevano essere passate almeno quattro generazioni di uomini, aveva terminato la sua esistenza così, d’improvviso.
    Ricordo distintamente che, a fatica, raggiunsi i primi rami di quella chioma ormai capovolta verso valle e ricordo che, sfiorandone il tronco con le lacrime agli occhi, dissi uno “scusa” soffocato dai singhiozzi, quasi che il caro vecchio faggio non avesse retto l’offesa fattagli dal mio intervento di taglio parziale, intervento che ben sapevo, tra me e me, operato solo per non ammettere di aver sbagliato.
    Già, sbagliai io a gettare la corda quel giorno, perché un alpinista esperto quale io mi ritenevo di essere, sarebbe sceso con gli anelli di corda addosso, avvolti in quel modo che consente loro di sciogliersi quando richiamati dal discensore.
    Peccando in arroganza e superbia sbagliai a non ammetterlo, sbagliai ad insultare l’albero e sbagliai a tagliarne quei rami.
    Davanti a quell’imponente albero caduto, imparai il vero significato della parola “umiltà”.
     
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  6. carlopiraneo
     
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    FRANCESCA TRA LE FOGLIE

    Francesca è una donna molto bella, mora, con due occhi scuri e brillanti come due perle nere; i tratti del sul viso sembrano disegnati da un pittore, tanto sono perfetti e proporzionati ed il suo fisico sinuoso è armonizzato da movenze eleganti, sensuali, mai volgari.

    E’ una donna molto attiva e dinamica ed ogni giorno, verso l’imbrunire, Francesca esce di casa per la quotidiana corsetta al parco, accompagnata dalle note dell’ I-pod che solo lei può sentire.
    L’ora di jogging è per Francesca una specie di rito, nel quale si perde tra i suoi pensieri, entrando in una dimensione diversa da tutto ciò che vive nel resto della giornata, una dimensione in cui fa la pace con il mondo e con se stessa.

    Francesca è nata e cresciuta in una famiglia a dir poco particolare; la mamma era una donna bella come lei ma marchiata dai tanti dispiaceri ed il padre, uomo dalla corporatura imponente, era rimasto menomato ad una mano a causa di un infortunio sul lavoro.
    Dopo quel fatto l’uomo non si era rassegnato alla sua piccola diversità, ed era finito nel vortice dell’alcolismo.
    Quando beveva diventava scontroso, irascibile, accecato da una gelosia assurda e spesso finiva con l’essere violento proprio con le due persone che al mondo lo amavano di più: sua moglie e sua figlia Francesca.

    Quando morì cadendo dalle scale, fu quasi una liberazione per Francesca, che ormai ventenne non sopportava più quella vita di prepotenza e sopruso.
    Dopo la morte del padre, aveva iniziato a lavorare, dapprima come commessa in un supermercato, poi come barista ed infine aveva trovato un posto come impiegata in una casa di riposo privata.

    Si occupò dell’anziana madre fino al giorno in cui un male improvviso non spense per sempre la tenacia di quella donna a cui sentiva di assomigliare molto.
    Ora Francesca era sola, appena ventiduenne ma sola al mondo e nel piccolo appartamento ereditato dai suoi, nel quale viveva, la sensazione di solitudine si amplificava.

    Si avvicinò al mondo del volontariato e dedicò un giorno alla settimana ai ragazzi di un orfanotrofio.
    Fu lì, per caso, parlando con un altro volontario, che Francesca seppe che la Polizia di Stato aveva deciso di aprire le porte alle donne.
    Detto, fatto! Si recò in commissariato, compilò la domanda, allegò tutti i documenti necessari, venne chiamata a Roma per un sacco di accertamenti e un giorno l’ufficio personale della Questura la chiamò e le comunicò che aveva superato il concorso e che avrebbe dovuto andare a frequentare il coso di formazione.

    Già, proprio così, quella bellissima donna dalle movenze eleganti, sempre gentile e sorridente con tutti, quella donna che ogni sera, all’ imbrunire corre nel parco, è una poliziotta.
    Francesca è un Ispettore Capo della Polizia di Stato e lavora all’ufficio minori della Questura della sua città, incarico che svolge con passione e dedizione, che le assorbe molte energie ma che ama moltissimo.

    Chi meglio di lei può comprendere le difficoltà di un ragazzo che vive in una famiglia difficile, di un bambino abbandonato, abusato, picchiato o segregato?
    Francesca ha imparato a non farsi coinvolgere troppo dalle storie con cui ogni giorno deve confrontarsi, anche se in ognuna di quelle storie tristi vede una piccola parte di sé.

    Il suo è un lavoro silenzioso, fatto di discrezione e delicatezza, un lavoro che non la porterà mai sul palco di una festa della polizia per ricevere un encomio, perché lei non arresta pericolosi criminali, non sventa rapine, non sequestra partite di droga, lei ascolta molto, parla poco, ma condivide sensazioni ed emozioni ed a volte riceve l’unico vero premio che a lei interessa: il sorriso di un bambino.

    Quella sera Francesca era uscita come al solito per la quotidiana corsa nel parco.
    Nelle orecchie la sua musica preferita;
    addosso la maglietta ed i fuseaux neri disegnavano le sue forme stupende, ma la giacca della tuta legata in vita la rendeva discreta e piacevole, come lei sapeva sempre essere.
    Era l’imbrunire di una giornata di fine settembre, l’inizio di una di quelle serate in cui l’aria frizzante e limpida rende più gradevole del solito correre.

    C’era pochissima gente in giro e a Francesca ciò piaceva particolarmente.
    Mentre stava correndo si accorse che sulle aiuole già si erano accumulate le prime foglie cadute dai grandi alberi, segno inequivocabile dell’autunno che stava avanzando.
    “Quante foglie per terra” pensò Francesca “adesso realizzo una cosa che è da tanto che non faccio più” continuò a dire mentalmente a sé stessa.

    Abbassò il volume del suo I-pod in modo che la musica si percepisse appena, lasciò il vialetto e si mise a correre tra le spianate circondate dai grossi tigli, su e giù tra le collinette del parco.
    Il rumore delle foglie secche sotto alle scarpe è meraviglioso e Francesca era incantata da quella sensazione che la riportava con la memoria a quando, ragazzina, veniva al parco con la madre e con gli altri suoi coetanei.

    Davanti a lei, come d’incanto, apparivano i volti degli amichetti di quel tempo orami lontano, le grida spensierate di bambini che si rincorrono tra gli alberi, calpestando cumuli di foglie secche, foglie che ogni tanto un refolo di vento più intenso faceva svolazzare in evoluzioni circolari.
    Francesca, da bambina, quando veniva a correre e giocare qui al parco, riguadagnava quella serenità che tra le mura domestiche non poteva avere e tornava ad essere spensierata e felice, come ogni bambino al mondo avrebbe il diritto di essere.
    Lei lo sa bene come un bambino dovrebbe vivere la propria fanciullezza; lo sa perché lo ha provato sulla propria pelle e per via del suo lavoro, quel lavoro che ogni giorno portava l’Ispettore Farncesca a misurasi con tante storie tristi di bambini, tutte diverse tra loro eppure tutte così simili alla sua.

    Correva Francesca e respirava, ingorda di quel momento tutto suo.
    C’erano solo lei…il suo affanno… una musica di sottofondo appena percepibile e lo scricchiolio dei suoi passi sulle foglie secche.
    Mentre stava correndo persa in quel turbine di sensazioni, percepì qualcosa che distolse le sua attenzione da tutto ciò, e si fermò di colpo.
    Fermò il respiro affannoso ed ascoltò.

    Dei gemiti soffocati provenienti da un cespuglio appartato la insospettirono ed il dubbio che potesse trattarsi di qualcosa di strano divenne certezza quando, tra quei gemiti, percepì chiaramente una richiesta d’aiuto.

    Era senza telefono cellulare, ovviamente disarmata e nei paraggi non c’era nessuno:
    il cuore le batteva a mille all’ora, non per la corsa, ma per quella situazione di pericolo apparsale all’improvviso.

    Non pensò più di tanto e in un istante irruppe tra i rami di quel cespuglio urlano con quanta voce aveva in gola ciò che in tanti anni di servizio mai aveva pronunciato: “FERMI POLIZIA!!!”

    Un istante dopo fu investita da un colpo violentissimo al volto, come se un treno in corsa le fosse venuto addosso e cadde.

    Le orecchie le fischiavano e un calore denso al viso le fece capire che dalle sue narici stava uscendo un fiotto sangue che già le stava impastando anche la bocca.
    Mentre cercò di urlare un secondo colpo, di violenza inaudita tra le costole, le tolse il respiro e le impedì di farsi sentire.

    Poi altri calci ed atri ancora, finché non riuscì più ad alzarsi.
    Uno di quei calci fece sì che l’I-pod di Francesca riprendesse a suonare a pieno volume e così lei, distesa tra le foglie ed incapace di muoversi od urlare, perse i sensi, mentre la musica andava.

    Una ragazzina con il viso tumefatto, venne accompagnata dai genitori al pronto soccorso e mentre la medicavano raccontò di una violenza interrotta da una bellissima donna che, urlando come una tigre, si era scagliata contro i suoi due aggressori, consentendole di fuggire.

    Le ricerche iniziarono subito, ma solo alle prime luci dell’alba il corpo senza vita di Francesca venne trovato, distesa su un cuscino di foglie secche, in quel parco che amava e nel quale ogni sera si rifugiava per rilassarsi, per correre, per tornare un po’ bambina, per respirare vita e speranza, accompagnata dalla sua musica preferita.

    Giorni dopo, quando L’ispettore Francesca, avvolta nel tricolore, stava uscendo dalla cattedrale accompagnata dall’applauso della gente, una ragazzina riccioluta con il volto tumefatto, appoggiò sul feretro una rosa rossa…due foglie secche…ed un bigliettino con su scritto “GRAZIE”.

    Dedicato alle mille "Francesca" che nel mio lavoro, in altre professioni ed in molte corcostanze della vita, sono capaci di manifestazioni di coraggio e generosità superiori a quelle di molti uomini.
     
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5 replies since 13/1/2011, 12:42   136 views
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