Aneddoti, racconti, storie, metafore in e di psicoterapia

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  1. Ginepro
     
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    STORIELLA RACCONTATA DA UN PAZIENTE IN ANALISI

    Un uomo arriva al circolo bocciofilo e chiede al custode dov'è il signor Brambilla. Il custode glielo indica, lui aspetta che l'altro finisca la giocata, si avvicina e timidamente gli chiede:

    "Scusi, è lei il signor Brambilla?"

    "Sì, sono io."

    "E' lei che ieri è andato a camminare in montagna?"

    "Sì, sono io."

    "E' lei che ha salvato il mio bambino che precipitava in un burrone?"

    "Sì - sorride compiaciuto il signor Brambilla - sono io."

    "Scusi - fa allora l'altro - e il cappellino dov'è?"

    [Speziale-Bagliacca, "Come vi stavo dicendo - Nuove tecniche in psicoanalisi", 2010)
     
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  2. Alessia Va
     
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    OT piccolo, piccolo (chiedo venia):

    Grande Speziale - Bagliacca!
    Io sto leggendo Colpa. Considerazioni su rimorso, vendetta e responsabilità ed è veramente straordinario.
    Parla alla mente e al cuore!

    Fine OT...
    :ciao:
     
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  3. Ginepro
     
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    “Talvolta l’analista deve fare tutto ciò che è in suo potere per non diventare un oggetto dai contorni nettamente delineati o per non comportarsi come tale. In altre parole, deve permettere ai propri pazienti di relazionarsi con lui, o di esistere con lui come se egli fosse una delle sostanze primarie. Ciò vuol dire che egli dovrebbe essere disposto a sostenere il paziente in maniera non attiva, come l’acqua sostiene il nuotatore o come la terra sostiene colui che cammina, in altre parole deve essere lì per il paziente, deve essere utilizzato senza opporre eccessiva resistenza. Al di là e al di sopra di tutto questo, deve essere presente, deve esserci sempre e deve essere indistruttibile come l’acqua e la terra”.

    (M. Balint)
     
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  4. Ginepro
     
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    "Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è. Mi pare che sia abbastanza alto, ma forse ho questa impressione perché l’unico momento in cui lo avevo davanti e potevo guardarlo in faccia era quando avevo suonato il campanello e lui veniva ad aprirmi la porta: per un attimo era lì davanti a me, in piena luce, dritto in piedi, stagliato contro l’ombra del corridoio piccolo e poco illuminato, con la mano sinistra appoggiata sopra la maniglia e la mano destra che si protendeva lentamente verso di me. Cercavo quella mano e la stringevo come per un’abitudine, ma in realtà ascoltando in quei due o tre secondi, con le mie dita, con la mia pelle, con i miei nervi, il calore, la forza, l’adesione delle sue dita, della sua pelle, dei suoi nervi.

    Nello stesso tempo scrutavo con uno sguardo frettoloso il suo volto per riceverne il massimo di sensazioni possibile. Egli sorrideva con gli occhi e con la bocca, mi fissava per un attimo, aspettando il mio saluto, e in quell’attimo si stabiliva un’intesa fra lui e me più forte di qualsiasi patto, mi sentivo contagiato e invaso dalla sua sicurezza, lo salutavo in apparenza perché così si usa, in realtà per fargli sentire con la voce la mia gratitudine, gli scivolavo a fianco e percorrevo quei pochi (dodici, tredici, quattordici) passi per arrivare al mio posto. Mentre percorrevo quei pochi passi, cercavo di fermare la sua immagine, di impedire che si dissolvesse. Bloccavo le sue parole, le riascoltavo, ne spremevo il senso, per avere una nuova ri sposta sempre alla stessa domanda: com’ero stato accolto?
    com’era lui oggi? come aveva parlato? aveva... forse aveva sorriso? E allora risuscitavo la sua figura, e mi accorgevo che guardandolo guardavo dal basso in alto, quindi era più alto di me, ma davanti alla soglia c’erano tre gradini e nell’attesa io sostavo sul penultimo gradino: era la sua apparizione a tirarmi su, a tirarmi dentro.
    […]
    Altro di lui non so dire. Mille ore sono state poche, sette anni sono passati con la velocità di un satellite che transita all’orizzonte. Sono invecchiato in quei sette anni, ma non me ne sono accorto. Ho sofferto più del tollerabile. A volte la sofferenza era così totale, così senza scampo, così conficcata dentro di me, che mi domandavo come potevo sopportarla, e solo adesso mi è chiaro perché: perché io non ero io solo, ero anche lui. Ero due.

    La sua casa era fuori città, oltre la periferia, sui colli; si arrivava da lui in mezz’ora di auto. Il suo studio era in un angolo della casa. Il mio posto era in un angolo del suo studio. Uscendo dalla città mi allontanavo dalla mia storia, mi staccavo dal mio ambiente, per mezz’ora navigavo in uno spazio che non era né mio né suo, come un astronauta uscito fuori dalla gravità terrestre ma non ancora attratto dall’orbita lunare.
    Già la vista dei colli dove lui abitava aveva un effetto liberatorio difficile da esprimersi, ma del resto tutto quello che sto raccontando è di difficile espressione, e ha bisogno, per essere capito, di essere ascoltato con particolari requisiti: una confidenza con la parola più che con le altre forme di comunicazione, e una intuitività degli infiniti rapporti simbolici che collegano tutte le cose fra loro, e che formano una rete lungo la quale, senza che noi ce ne accorgiamo, le cose viaggiano continuamente e cambiano di posto.

    Io sono andato da lui tutte le settimane per sette anni ma non ho mai saputo dire perché, e ho sempre sentito che il giorno in cui l’avessi saputo dire avrei smesso di andarci. Era un problema linguistico, cioè totale.
    E non era un problema esterno a me: il problema ero io. Affrontare questo problema era possibile solo in un modo: che io diventassi lui e lui me. Questa identificazione consisteva nell’uso dello stesso linguaggio: lui doveva parlare come me. Questa frequentazione è stata una continua ricerca, lui cercava me, io lanciavo dei segnali e lui mi faceva capire che li aveva ricevuti e si avvicinava sempre di più. Era come camminare in uno di quei labirinti di specchi in cui ad ogni passo che fai la tua immagine ti viene restituita da tutti i lati, la porta è truccata in uno di quei lati, ma tu non sai quale, e dopo mezz’ora sei smarrito: allora il padrone del labirinto, che ti vede non visto, ti guida i passi spostandoti più a destra, più a sinistra, avanti, indietro, finché con l’ultimo passo ti trovi in faccia al mondo o in faccia a lui, che è la stessa cosa".

    [F. Camon, "La malattia chiamata uomo", Garzanti 1981)



     
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  5. Alessia Va
     
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    L'analisi può essere terribilmente umiliante. La dipendenza che crea mette il paziente nella stessa condizione del bambino piccolo nei confronti della propria madre. Ma è una madre questa che offre solo quattro o cinque ore del suo tempo a settimana, una madre che non si può ne toccare ne guardare, se non un attimo, nel momento in cui si entra e si esce, e di solito si è cosi turbati da quegli incontri che non si riesce quasi mai a trattenere i tratti del suo viso. E si può comunicare solo in occasione di quei contatti, stabiliti così come lo sono le interruzioni nelle vacanze di Natale, di Pasqua e in quelle estive. Non si può telefonare, si deve aspettare, sempre quell'ora e basta. E spesso tutto quello che si sarebbe voluto dire uscendo da quella stanza il giorno prima, o due ore prima, svanisce. Si entra quasi sempre disarmati, come bambini.
    Tuttavia è proprio grazie a questo rapporto così anomalo ma così intenso, dove tutto ciò che è artefatto viene sfrondato, che si può ricostruire in modo autentico la propria personalità.
    Tutta la logica ufficiale riconosciuta nei rapporti esterni all'analisi è messa a soqquadro. Parlare con l'analista con il quale si ricrea, di volta in volta, ogni rapporto di coppia vissuto in precedenza, restituisce l'opportunità di capire dove e come si è instaurato il difetto di comportamento che ha reso il rapporto con se stessi precario, oppure inadeguato, falsato. Svanisce la paura di non essere accettati per ciò che si è, non si ha più bisogno di giustificarsi. Essere in ritardo, distratti, tristi, spaventati, non avere desideri non è più una colpa come non lo è non essere ancora guariti, non avere voglia di parlare. E l'analista sta li, ti da il respiro necessario per la tua crescita, non ti giudica, ti accetta qualsiasi cosa tu dica. E non succede niente se incominci ad esistere, non crolla nulla!
    Le paure cosi si smorzano, tutto quello che ha inibito tanto tempo fa il proprio essere si dimostra inconsistente e nasce lo spazio anche per se stessi.
    Si mollano lentamente gli ormeggi, ci si può avventurare per la propria strada senza la convinzione di incontrare difficoltà, spesso immaginarie, inventate dalla paura di perdersi lungo il percorso. E arrivano anche i passi falsi, le ricadute. L'entusiasmo appena nato crolla, si ricade nel buio della paura. Ma lui, l'analista, è sempre li, testimone della tua nascita, per ricordarti, solo con la sua presenza, che si può ritentare, provare di nuovo a camminare, come un genitore incoraggia un figlio ai primi passi alternati alle prime, inevitabili, cadute. Tutto avviene spesso nel silenzio, un silenzio più eloquente di ogni parola.
    Il dialogo tra la madre e il feto in gestazione non è espresso attraverso le parole ma è altrettanto intenso e comprensibile per entrambi.
    Ma l'analista, padre e madre, diventa anche il bersaglio della propria rabbia. La dipendenza è spesso avvilente, spesso si pensa senza dirglielo: per avere l'affetto e la sicurezza che non ho trovato, devo venire qui, quasi tutti i giorni, per anni. E tu stai li, seduto, come se niente fosse, senza rispondere alle mie domande, senza muovere un dito mentre io darei una mano per un tuo gesto di affetto!
    Eppure ti pago, e molto anche, per avere quello che gli altri hanno senza faticare. Sono costretta a elencarti tutte le mie angosce, le mie paure, le mie debolezze, quelle che, fuori di qui, nascondo cosi accuratamente! Non so neanche dirti questo apertamente, ma tanto è certo che, attraverso un mio lapsus, mi sarò già tradita. Mi svergino ogni volta per appagare il tuo voyeurismo. Non verrò più, non sprecherò neanche un altro minuto del mio tempo inutilmente. Sto male come cinque anni fa, non mi hai aiutata neanche un po'. Ti detesto perché sei forte, più forte di tutti, grazie al tuo silenzio che certo a te non costa niente! Oppure usi le tue associazioni da manuale! Ti odio perché ho bisogno di te!
    Ma si esce sconfitti, perché dentro di sé già non si vede l'ora di tornare per vedere se il tuo bersaglio è ancora li, malgrado gli attacchi ricevuti. Ed è li, l'analista, come sempre incrollabile, per dimostrarti che si può anche essere arrabbiati senza distruggere il mondo intero e, soprattutto, il tuo oggetto d'amore, che lui rappresenta. È cosi che, senza accorgersene, si impara a convivere, passo per passo, con le proprie rabbie e insicurezze, acquistando la sensazione di poter essere accettati dagli altri, o semplicemente di “essere”.
    All'inizio tutto questo avviene spesso senza che lo si percepisca. Più tardi, in determinate circostanze, ci si accorge che si possono affrontare le difficoltà in modo diverso, accettando anche le sconfitte e le depressioni, vivendole con delle modalità di comportamento diverse. E viene anche la certezza che esistano delle soluzioni, che si trovano in se stessi, finalmente più forti.


    Fabiola de Clercq – Tutto il pane del mondo.
     
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  6. Ginepro
     
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    Sei entrato arrabbiato,
    non solo con le istituzioni, la gerarchia, il sistema:
    tu eri arrabbiato con me.

    Io avevo paura, non solo di come camminavi, della tua rabbia,
    e del fuoco che ardeva nei tuoi occhi;
    io avevo paura della mia incompetenza.

    Cercavo di tenere i nervi saldi
    e di soffocare i fremiti interiori.

    Ho detto: “Tu sei arrabbiato”.
    Tu hai sospirato.

    Non appena ti sei seduto, un fuoco ha cominciato a scaldarci.
    Ha funzionato.
    Proprio come avevano detto che sarebbe stato!


    [Wolfe, 1975, da un vecchio giornale di counseling, in Fine-Glasser, "Il primo colloquio - Coinvolgimento e relazione nelle professioni d'aiuto", McGraw-Hill, 1999]
     
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5 replies since 6/1/2011, 21:23   468 views
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