Posso uploadarti? Internet e la sentenza Google. Serve il consenso dei terzi ripresi in video

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  1. _Nicoletta
     
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    Posso uploadarti?
    Internet e la sentenza Google. Serve il consenso dei terzi ripresi in video


    di Oreste Pollicino, professore associato di diritto pubblico comparato alla Bocconi

    La decisione del Tribunale di Milano che ha condannato il 24 febbraio (ma le cui motivazioni sono state rese note solo di recente) tre dirigenti di Google a sei mesi di reclusione per trattamento illecito dei dati personali fa discutere.
    I fatti sono noti: un bambino autistico viene verbalmente e fisicamente umiliato da alcuni compagni di scuola che filmano il tutto col cellulare e pubblicano la registrazione su Google Video. Il video rimane online per due mesi ed entra nella top ten dei video più divertenti (sic!), prima di venire rimosso a seguito dell’intervento della polizia postale. Ma quali le implicazioni della pronuncia?

    La prima, è forse la meno interessante: abbiamo avuto conferma del grande rispetto che il colosso di Mountain View ha nei confronti delle nostre istituzioni. Basti citare il commento al Financial Times del grande capo Eric Schmidt: “Il giudice ha assolutamente torto. Allora pigliamo tre persone a caso e spariamogli. È una stronzata. Offende me e offende l’azienda". Non c’è che dire, l’ha presa bene.
    Ma nonostante il bon ton di Schmidt, sarebbe un errore liquidare come un semplice abbaglio, per usare un eufemismo, la pronuncia del giudice Magi. Infatti, un effetto importante della decisione è che sarà, da ora in poi, molto più difficile per Google eludere gli obblighi che gli sono imposti dalla normativa italiana ed europea trincerandosi dietro il “No server, no law”. Cioè affermando che essendo le infrastrutture informatiche situate nella Silicon Valley, non sarebbe applicabile la legge italiana sulla tutela dei dati personali. Il giudice ha affermato che tale normativa è invece applicabile e che quindi il giudice italiano è competente tutte le volte in cui il trattamento dei dati personali ha avuto luogo anche in Italia, attraverso la diffusione del video su Google Italy.

    Ma se la disciplina italiana ed europea è applicabile, allora i provider, d’ora in poi, dovranno iniziare a prendere sul serio gli obblighi che impone quando si trattano dati sensibili. Attenzione, il giudice non individua tra tali obblighi, come si è detto a sproposito, quello di un controllo preventivo di tutto il materiale caricato online. Non solo perché sarebbe tecnicamente impossibile, ma perché si scontrerebbe con quanto previsto dalla disciplina italiana ed europea che esonera da un dovere generale di vigilanza gli internet provider. Quello che invece Google poteva e doveva fare era approntare un’informativa più chiara e leggibile nei confronti degli utenti che caricano video in cui siano ripresi terzi, sulla necessità che sia preliminarmente acquisito il consenso di questi.

    Nonostante dunque i toni retorici con cui, prima di conoscere le motivazioni (ma anche dopo), si è parlato della pronuncia del Tribunale di Milano come di un attacco alla libera espressione sul web, sembra che più che un problema di tutela dei diritti fondamentali (e, in particolare, della libertà di espressione), alla base del caso ci sia una questione, più banalmente, di riequilibrio di un modello di business aziendale.
    In altre parole, quanto è opportuno e quanto è conveniente che spenda in più Google per essere in grado di rispettare la legge italiana (ed europea) sulla tutela dei dati personali?

    Un’ultima considerazione, consapevole di andare controcorrente. Non mi pare che a tutti i servizi che offre Google si possa applicare sic et simpliciter la normativa comunitaria (e nazionale) sull’esonero di responsabilità nei confronti degli internet service provider.

    La prima ragione è che la normativa in questione concepisce il provider come un soggetto terzo che non ha alcun controllo sui contenuti in quanto non ha possibilità di incidere concretamente sulle loro modalità di diffusione, ma può al massimo prestare uno spazio poi gestito autonomamente dal fornitore di contenuti. Si può dire che Google video (e ora YouTube) con i suoi sistemi sofisticati di filtri e indicizzazioni, non abbia alcun controllo sui dati del prestatore di servizio?

    La seconda ragione è di natura economica. È probabile che la direttiva sul commercio elettronico adottata nel 2001 e che prevede l’esonero di responsabilità, avesse in mente quegli internet service provider che fornivano il servizio di connessione in cambio di una contropartita economica, e non chi, come Google, fa dei guadagni non chiedendo un quid per il servizio di connessione, che è gratuito, ma lucrando sulla pubblicità che ospita la piattaforma.
    link: www.viasarfatti25.unibocconi.it/notizia.php?idArt=6001
     
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0 replies since 20/9/2010, 17:56   15 views
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