La carità pelosa di Tremonti

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  1. _Nicoletta
     
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    Don Aldo Antonelli: La carità pelosa di Tremonti

    di don Aldo Antonelli

    "Carità Pelosa". così si chiamava, dalle nostre parti, l'amore prigioniero del gesto pietoso e cieco della responsabilità adulta.

    L'espressione mi è tornata in mente di fronte all'uscita geniale del Tremonti che reistaura, in chiave moderna, la vecchia "tessera annonaria"... in piena linea con la cultura fascista e con la morale doppiopettista della destra.

    Sì: carità pelosa!

    Si tratta di un sentimento epidermico di compassione emotiva che però, oltre alle distanze dalla miseria, mantiene anche le cause che la generano. Si tratta dell'ipocrisia propria di chi ti fa dono del superfluo dopo averti rapinato del necessario.

    "La Carità, ebbe a scrivere il grande Paul Ricoeur, non è forzatamente là dove la si esibisce...essa è molto spesso il senso nascosto del sociale".

    Nel primo dopoguerra, nel febbraio del 1950, ad una "pia donna" scandalizzata per la durezza del suo linguaggio contro le facili e inutili elemosine, don Primo Mazzolari rispondeva lapidariamente: "Ma cos'è la Carità? La prego a non voler rimpicciolire fino alla pusillanimità più meschina questo termine sacro. La Carità è anche violenza (violenza d'amore), la Carità è anche rampogna. Legga S.Paolo, legga S.Girolamo, legga santa Caterina da Siena o rilegga semplicemente - ma più attentamente - il Vangelo. Quando Cristo dice 'guai a voi', 'ipocriti', 'sepolcri imbiancati' era mosso da carità come quando guariva i lebbrosi o sbendava Lazzaro richiamato dal sepolcro. La carità esige anche le parole dure, quando sono necessarie. Altrimenti, col bruciarci l'incenso l'un l'altro, finiremo con l'accecarci di più. Non si scandalizzi dunque, brava signora, delle parole forti, della carità che grida. Si scandalizzi piuttosto del quieto e sonnolente conformismo che ci sta prendendo...".

    Segno di questo "sonnolente e quieto conformismo" è anche il silenzio che ha accompagnato la grande trovata del ministro Tremonti nel voler reintrodurre la "Poverty Card". Non vi pare?

    Contro questo imbecille silenzio, ho trovato interessante un articolo di Roberta Carlini sull'ultimo numero di Rocca.

    Scrive la Carlini, tra l'altro:

    "C'è molto del ministro Tremonti, in questa 'poverty card': un certo clima emergenziale da economia di guerra, un grande fiuto per le politiche di immagine, una forte spregiudicatezza nel vendere la propria merce politica (in fondo, di ben pochi soldi si tratta nel bilancio familiare di un anno, e anche nel bilancio pubblico italiano). E soprattutto, c'è una concezione del welfare che salta a pié pari il Novecento per tornare all'Ottocento: la carità, sentimento privato che si fa politica pubblica e cancella i diritti dei cittadini per riconoscere solo, in modo compassionevole e discrezionale, i bisogni dei poveretti. Le dame di San Vincenzo assunte dallo Stato e infilate in un chip elettronico".

    (14 luglio 2008)
    da http://temi.repubblica.it/micromega-online...sa-di-tremonti/
    ancora cultura e concezioni stile ventennio :huh:

    ed ancora





    TREMONTI E DRAGHI, IL BALLETTO NEI SALONI DEL TITANIC
    Mercoledì, 16 Luglio 2008 - 00:10 -
    di Mario Braconi

    Succedono cose stranissime in periodi di crisi: blasonati quotidiani finanziari britannici rivalutano i pregi di una seria regolamentazione dei mercati finanziari per la collettività; l’Ecofin, finora ingenuo come un’illibata fanciulla, scopre finalmente l’esistenza della speculazione internazionale e dibatte i malanni che ne derivano ai cittadini europei. Ma l’evento più interessante della scorsa settimana è il garbato battibecco con cui il ministro dell’Economia e delle Finanze e il Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea ABI (Associazione Bancaria Italiana) hanno contrapposto le rispettive visioni del mondo, talora ricorrendo ad uno stile che non avrebbe sfigurato in una vecchia sezione socialista. Se da un lato, infatti, Tremonti si è prodotto in un’inattesa difesa della classe operaia (l’unica impossibilitata a “traslare” su qualcun altro gli effetti degli aumenti di prezzi), Draghi ha messo impietosamente il dito nella piaga di un Paese cui l’insipienza politica ha regalato un livello di salari reali netti non troppo diverso da quello registrato quindici anni fa.

    Non v’è dubbio che Tremonti disponga di una notevole capacità di marketing politico. Se si prova per un momento a dimenticare qual è la sua storia e quale siano i suoi “amici” più cari, c’è un che di quasi simpatico nel modo quasi ossessivo con cui dichiara (almeno sui giornali) guerra alla speculazione. Non dispiace affatto la sua proposta di disincentivare il ricorso ai strumenti derivati del petrolio aumentandone drasticamente il costo (più elevati margini di garanzia da versare all’inizio), sempre che se ne faccia qualcosa. Tremonti inoltre, grazie all’appoggio della Francia e nonostante la freddezza di Gran Bretagna e Paesi Bassi, è riuscito a imporre all’Eurogruppo un’agenda basata sulla lotta alla speculazione, indicando nell’applicazione degli artt. 81 ed 82 del Trattato di Roma (contro i cartelli e le intese tra concorrenti) i possibili meccanismi sanzionatori. Per fare un esempio, si tratta delle disposizioni antimonopolistiche che potrebbero costare alla Microsoft la bellezza di 900 milioni di euro di multa.

    Ma il colpo di genio mediatico di Tremonti è il provvedimento che va sotto il nome di Robin (Hood) Tax. Il “prodotto” è stato venduto con lo slogan “la tassa che prende ai super-ricchi per dare ai poveri”: in pratica si tratterebbe di una tassazione straordinaria a carico di quelle categorie di aziende che negli ultimi anno si sono auto attribuite extraprofitti grazie alla speculazione, il cui gettito verrebbe impiegato a scopi ridistribuitivi. Peccato che basti grattare l’oro con l’unghia - e Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra de La Voce lo hanno fatto - per capire che le cose non stanno proprio come le mostra il furbo Giulio. Innanzitutto, poiché l’imposta è basata sui ricavi e non sui profitti (peraltro di un esercizio differente da quello in cui si applica) e quindi potrebbe andare a colpire i profitti e non gli extra-profitti, con conseguenze negative sugli investimenti delle aziende. Senza contare che seleziona le imprese da colpire in modo arbitrario (Giannini e Guerra si domandano, giustamente: perché limitarsi a banche, società energetiche e assicurazioni escludendo escludendo telecomunicazioni e autostrade? Più comprensibile, nell’ottica di Tremonti l’inclusione delle cooperative, da sempre covo di rossi). Magari gli abbiamo dato un’idea…

    Per comprendere meglio quanto sia forte la componente propagandistica di una misura come la Robin Tax bastino le seguenti considerazioni: al fondo di solidarietà per i meno abbienti viene destinato solo il 10% del suo gettito atteso e solo per un anno, il 2008; le aziende del settore energetico sono di proprietà pubblica o maggioranza pubblica, per cui l’imposta finirebbe per tramutarsi in una partita di giro; da ultimo, questo tipo di imposta, a dispetto di un divieto di traslazione tanto stentoreo quanto formalistico, rischia di essere scaricato totalmente sul consumatore finale.


    E’ quest’ultimo il punto sollevato da Draghi, il quale, da iper-liberista, ha un riflesso condizionato che lo fa scattare come una molla quando sente parlare di interferenze dello stato sull’allegra anarchia del liberissimo mercato. Per questa ragione all’ABI è andato ben preparato: secondo uno studio di Bankitalia, la Robin Tax allo studio del Governo “vale” un incremento di 10 centesimi nei costi di raccolta sostenuti dalle banche (già notevolmente stressate dalla crisi di liquidità internazionale). Il suo sinistro vaticinio ha più il sapore della minaccia che dell’oggettiva constatazione: per risolvere il problema, profetizza Draghi, le banche potrebbero (alternativamente) vedersi costrette ad aumentare i costi per la clientela, rinunciare ad aumenti di capitale, ovvero pagare meno dividendi agli azionisti. Dato che il caso della rinuncia al dividendo mi pare di tipo puramente scolastico, restano queste due interessanti possibilità: indebitamento più costoso per le famiglie e/o banche in difficoltà patrimoniali.

    A proposito di costi finanziari, Draghi si è esibito in una complicata piroetta dialettica: se da un lato il Governatore ha ammesso che il 70% dei debiti delle famiglie è a tasso variabile, il rischio di bancarotta è piuttosto concreto. Eppure, nel mondo perfetto in cui vive Mario Draghi il rialzo dei tassi deciso dalla Banca Centrale lo scorso 3 luglio è da considerarsi un bene: a detta del Governatore, infatti, “contrastando il rialzo dell’inflazione, si difende il reddito disponibile delle famiglie. L’aumento dei prezzi erode il potere d’acquisto, abbassa il valore reale della ricchezza finanziaria, contribuisce al rallentamento dei consumi e della crescita”. Come sostiene Joseph Halevi, invece, poiché l’inflazione è generata da “fuori” (shock sulle materie prime e sugli alimenti) il rialzo dei tassi ha un effetto modesto sul controllo dei prezzi, ma mette sicuramente in difficoltà le famiglie indebitate riducendo nel contempo i margini di profitto (e quindi gli investimenti) delle aziende, con effetti negativi sull’occupazione. In pratica “alzare i tassi significa affrontare il problema dell’inflazione colpendo i settori e gli elementi che non l'hanno causata. Il che è logicamente assurdo”. Ma coerente con la storia di questo Paese, bisogna riconoscerlo.

    da Altrenotizie.org

    mi sembra un articolo bello chiaro su cose che non vanno lasciate passare
    poi "Robin Hood tax"...
    ma si può essere più ridicoli? :sgraff:

    Ah si ma meno male che non paghiamo l'ICI...
    :controilmuro:
     
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0 replies since 19/7/2008, 22:06   85 views
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